Il trasferimento nel lavoro privato

Il diritto del datore di lavoro a trasferire un dipendente, spesso può confliggere con il diritto dello stesso dipendente a mantenere la solita sede. Il codice civile dispone, all’art. 2103 c.c. che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive“.

Vediamo cosa avviene se il lavoratore si oppone al trasferimento.

Se il datore di lavoro dispone il trasferimento del dipendente in un’altra sede, questi può sottrarsi a questa decisione e rifiutarsi di prendere servizio in altra sede?

Il contratto di lavoro dipendente impone al lavoratore di osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro o dai suoi delegati, così come prevede l’art. 2104 c.c., cosicché – se il dipendente trasgredisce tali direttive – è inadempiente e, come tale, è assoggettato al potere disciplinare del datore di lavoro.

Pertanto, quando il datore di lavoro dispone il trasferimento del dipendente, questi è – in linea di principio – tenuto ad ottemperarvi e non può quindi rifiutarsi, perché diversamente verrebbe assoggettato al potere disciplinare del datore di lavoro.

Sotto altro profilo, però, anche al datore di lavoro non è concesso di trasferire il dipendente, se questa decisione non è giustificata da specifiche ragioni tecniche, organizzative o produttive dell’impresa e non personali.

Nella prassi può spesso avvenire che il dipendente non abbia elementi utili a verificare se il proprio trasferimento sia effettivamente dovuto ad esigenze o strategie dell’impresa, oppure se sia ingiustificato. D’altronde il datore di lavoro non è tenuto a comunicare al dipendente le ragioni della sua decisione, ma dovrà farlo solo se convenuto in giudizio, dove dovrà essere preparato a fornire la spiegazione e la prova della sua scelta.

In questi casi, pertanto, il lavoratore che non voglia incorrere in sanzioni disciplinari, che possono anche sfociare nel licenziamento, è opportuno che impugni con atto stragiudiziale il provvedimento nel termine di 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Con l’impugnazione deve contestarsi la legittimità del trasferimento.

Il datore di lavoro può allora revocare o confermare il trasferimento, oppure non rispondere. In queste due ultime potesi il lavoratore deve instaurare un giudizio dinanzi il Tribunale del lavoro. Detto procedimento potrà essere proposto, anche in via d’urgenza, con il fine di accertare la legittimità o meno del trasferimento. La Cassazione ha infatti precisato che “il trasferimento del lavoratore presso altra sede, giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali, consente al medesimo di chiederne giudizialmente l’accertamento di legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte” (Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 26/09/2016, n. 18866).

Se il lavoratore rifiuta il trasferimento, il datore di lavoro può licenziarlo?

Se il lavoratore rifiuta il trasferimento senza impugnarlo, può essere sottoposto ad un procedimento ed ad una sanzione disciplinare, e quest’ultima può anche essere il licenziamento. A quel punto al lavoratore non resta che impugnare nei termini di legge la sanzione, contestando la legittimità del trasferimento.

Bisogna considerare che non è facile determinare a priori la legittimità o meno di un licenziamento dovuto al rifiuto al trasferimento, perché la giurisprudenza è solita valutare caso per caso a seconda delle circostanze, con il fine di bilanciare i contrapposti interessi delle parti e le loro effettive esigenze. Una linea guida efficace riteniamo ci venga data dall’Ordinanza n. 13895/2022 della Cassazione sezione Lavoro, secondo la quale occorre valutare:

  • la puntuale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento,
  • l’incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e sugli interessi aziendali.

Conclude la Corte Suprema affermando che “tutti questi elementi dovranno essere considerati nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 Cost. “.

La Cassazione – in sintesi – chiarisce che, in primo luogo, occorre accertare se il trasferimento è giustificato da ragioni tecniche, organizzative o produttive. Si pensi ad esempio alla chiusura di una sede aziendale, od all’apertura di una nuova dove è necessaria la presenza di personale già esperto. In genere è giustificata qualunque scelta strategica con la quale l’imprenditore ritiene di giovare alla produttività della sua azienda, e ciò perché deve essere tutelato il suo diritto alla libera iniziativa economica, previsto dall’art. 41 Cost.

Questa verifica è prioritaria, perché laddove non vi fosse una reale giustificazione, il trasferimento finirebbe soltanto per ledere i diritti del lavoratore e quindi sarebbe certamente illegittimo.

Qualora il datore di lavoro abbia spiegato e provato le sue ragioni, dovranno invece valutarsi le esigenze del lavoratore. Qui entrano in gioco gli artt. 35 e 36 Cost. che tutelano la retribuzione del dipendente e le condizioni di lavoro, che devono essere idonee a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Ecco perché la Cassazione concentra l’accertamento sulla verifica della concreta incidenza del trasferimento sulle esigenze di vita e familiari del lavoratore. Se per il lavoratore non vi fossero serie ragioni, personali o familiari, per rifiutare il trasferimento, questo verrebbe ritenuto legittimo. Sarebbe invece illegittimo il comportamento di un datore di lavoro che, pur ricevendo la disponibilità al trasferimento da parte di un lavoratore, trasferisca un altro dipendente di identica competenza, che – per motivi familiari – vorrebbe rimanere presso la stessa sede. In quest’ultimo caso, infatti, il datore di lavoro potrebbe soddisfare la sua esigenza di trasferire una unità lavorativa, senza sacrificare le esigenze del lavoratore che non vuole trasferirsi. Quindi bilanciando il diritto ex art. 41 Cost. dell’imprenditore, con quello ex art. 36 Cost. del lavoratore, il trasferimento diverrebbe illegittimo.

Per rendere più chiaro il meccanismo adoperato dalla giurisprudenza, è interessante osservare un caso concreto trattato dalla Cassazione (Cassazione Civile, Sez. lav., sentenza del 3 maggio 2022, n. 13895), ove una lavoratrice era stata licenziata perché non aveva accettato il trasferimento dalla sede aziendale di Firenze a quella di Torino. In questo caso, è stato accertato in giudizio che, nonostante il licenziamento della dipendente, l’Azienda, pur potendolo fare, non aveva coperto il posto della sede di Torino con altri lavoratori. Da tale circostanza i Giudici hanno tratto la conclusione che l’Azienda – in realtà – non aveva reali necessità di occupare quel posto di lavoro presso la sede di Torino ed hanno quindi ritenuto nullo il licenziamento per illegittimità del trasferimento.

In conclusione, oltre ai più gravi casi di illegittimità per trasferimenti discriminatori o ritorsivi, se l’imprenditore vuole trasferire un dipendente è sempre utile che lo faccia con una reale motivazione che sia in grado di dimostrare in giudizio. Il lavoratore che, invece, intende contestare il trasferimento è opportuno che lo impugni con atto stragiudiziale nel termine di 60 giorni, e con ricorso giudiziale nei successivi 180 giorni ai sensi dell’art. 32 D.lvo n. 183/2010.

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