Stress da lavoro. Quando è mobbing?
Faq mobbing
La Cassazione ha più volte definito il mobbing, che – diciamo subito – non è espressamente previsto dalla legge, ma è un termine utilizzato dalla giurisprudenza, che ormai appartiene comunque al linguaggio comune, per definire atti o strategie del datore di lavoro finalizzati alla prevaricazione del lavoratore. Generalmente la Costituzione all’art. 35 tutela il lavoro in ogni sua forma ed all’art. 2 garantisce che ogni individuo possa realizzare sé stesso nelle formazioni sociali, e quindi anche nel luogo di lavoro, così come l’art. 32 Cost. tutela la salute di ognuno. L’art. 2087 c.c. applica in modo specifico questi principi generali e prevede che il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Sulla base di questa norma, la giurisprudenza ha voluto tutelare tutte quelle situazioni nelle quali il datore di lavoro abbia inteso od intenda sottoporre il lavoratore a lui subordinato a vessazioni. D’altronde se la legge, come abbiamo visto, gli impone di adoperarsi per tutelare la salute, la psiche e la dignità dei propri dipendenti, è certamente illegittima la condotta del datore di lavoro che agisca lui stesso contro un lavoratore per comprometterne quei valori che piuttosto avrebbe dovuto tutelare.
La sezione lavoro della Corte di Cassazione in una sua recente sentenza, la n. 33639 del 2022, ha sintetizzato in modo molto efficace quando vi è mobbing secondo la giurisprudenza, ed è proprio da questa che è possibile prendere spunto per definire questo fenomeno.
- Chi lo compie.
- Cosa cambia tra una causa per mobbing verticale ed una per mobbing orizzontale.
- Il lavoratore che “mobbizza” un collega non è esente da responsabilità.
- Cosa si intende per atti persecutori.
- Sono risarcibili i danni alla salute, alla personalità od alla dignità del dipendente.
- Il danno accertato deve essere stato causato dal mobbing.
- Atti vessatori singoli o sporadici possono essere straining.
- Quando c’è un danno, nonostante non ci sia mobbing (lo stress da lavoro-correlato).
- Quando non c’è risarcimento, nonostante l’esistenza di un danno.
- Conclusioni.
Chi lo compie. Artefice del mobbing può essere direttamente il datore di lavoro od il preposto (ovvero chi nell’impresa ha la funzione di sovraintendere all’attività del personale dipendente) od altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi. Il mobbing è verticale, se ne è autore il datore di lavoro od un superiore della vittima. Il mobbing è orizzontale se ne sono autori altri lavoratori.
Cosa cambia tra una causa per mobbing verticale ed una per mobbing orizzontale. Come abbiamo visto, la responsabilità per mobbing, ai sensi dell’art. 2087 c.c., è del datore di lavoro, ovvero dell’impresa per la quale il lavoratore presta servizio. Nel mobbing verticale, il lavoratore deve dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro, del preposto o del superiore gerarchico, mentre nel mobbing orizzontale, il lavoratore deve dimostrare l’intento persecutorio dei colleghi di lavoro. Tuttavia, se le vessazioni non provengono direttamente dal datore di lavoro o da chi ne esercita le funzioni (il preposto), il lavoratore deve anche dimostrare che questi ne fossero consapevoli (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 20.01.2020, n. 1109), perché è il datore di lavoro a dover prevenire pregiudizi a carico del lavoratore, non il suo collega.
In pratica, quando lavoratore ed impresa stipulano un contratto di lavoro, l’impresa non si obbliga soltanto a pagare lo stipendio, ma deve anche altre prestazioni al lavoratore (così come il dipendente non si obbliga soltanto a lavorare). Tra le obbligazioni alle quali è tenuta l’impresa vi è anche l’obbligo di prevenire il mobbing o comunque di evitare che il lavoro arrechi pregiudizi alla salute del dipendente. La stessa cosa non può dirsi per i colleghi di lavoro. Il lavoratore vessato da altri dipendenti, infatti, non ha stipulato con loro alcun contratto e quindi non sono loro a dover tutelare la sua salute. Quando un dipendente è perseguitato da altri colleghi, il datore di lavoro deve quindi intervenire per far cessare le vessazioni.
D’altronde l’art. 2094 c.c. conferisce al datore di lavoro il potere direttivo, quel potere cioè di dare disposizioni, che l’art. 2105 c.c. rende obbligatorie per i sui dipendenti, ed in caso di vessazioni deve utilizzare questa sua posizione di supremazia per far cessare le condotte lesive. Se non lo facesse sarebbe responsabile direttamente dei danni subiti dal lavoratore vessato, proprio perché, pur avendo il potere di far cessare la condotta illecita, non lo ha fatto, omettendo quindi di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro e violando quindi l’art. 2087 c.c.
È responsabile il datore di lavoro che non sia intervenuto, ma solo se fosse a conoscenza della situazione. Se il datore di lavoro fosse del tutto ignaro della situazione, non potrebbe essere ritenuto colpevole per non aver impedito vessazioni delle quali non era a conoscenza. Proprio per questa ragione è spesso utile informare il datore di lavoro per iscritto, così da sollecitare un suo intervento risolutivo.
Le considerazioni appena viste sono affermate dalla sentenza n. 27913 del 4.12.2020 della Cassazione, dove si legge che “quando i comportamenti tenuti dai dipendenti nei confronti di un collega siano idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, il datore di lavoro risponde del conseguente risarcimento del danno da invalidità temporanea, ogni qual volta sia venuto a conoscenza delle condotte vessatorie e non abbia adottato gli opportuni provvedimenti per porvi fine.
Invero, lo stesso, sebbene non si sia reso direttamente protagonista delle condotte vessatorie, non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c., rivestendo, ex lege, una posizione di “garante” a tutela, anche, l’integrità psico-fisica del lavoratore” (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 4 dicembre 2020, n. 27913).
Il lavoratore che “mobbizza” un collega non è esente da responsabilità. Pur non essendovi un contratto tra i colleghi di lavoro, questi sono comunque responsabili per i fatti illeciti da loro perpetrati.
Nell’esperienza pratica è più raro assistere a cause di risarcimento per mobbing nei confronti del collega. Ciò avviene perché una causa per mobbing può avere il primario scopo di far cessare la condotta vessatoria, e questo risultato è possibile solo con atti del datore di lavoro che può disporre dell’ambiente aziendale e modificarlo come più opportuno. È possibile tuttavia convenire in giudizio sia il datore di lavoro, che il collega mobbizzante, soprattutto quando la condotta di quest’ultimo ha rilevanza penale (ne parliamo qui), e ciò per chiedere che entrambi siano condannati al risarcimento (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 05.05.2023, n. 11913). Senza voler approfondire la questione in questa sede, è da tener presente che l’azione di risarcimento nei confronti del collega, proprio perché non ha alla sua base un contratto, sarà extracontrattuale (mentre quella contro il datore di lavoro sarà contrattuale) e quindi dovrà essere dimostrata l’illiceità della condotta (quando invece nell’azione mobbing contro il datore di lavoro gli atti non necessariamente sono illeciti) e la prescrizione sarà più breve (5 anni rispetto ai 10 anni di prescrizione per l’azione contro il datore di lavoro) Ogni singola azione legale, in ogni caso, è diversa dall’altra e va sempre esaminata da un avvocato, affinché questi, insieme al proprio assistito, faccia le valutazioni e le scelte più opportune, secondo la strategia difensiva da adottare nel caso concreto.
Il lavoratore od i lavoratori che hanno mobbizzato un collega, pur non essendo legati da un contratto con quest’ultimo, sono comunque tenuti al rispetto del loro contratto con datore di lavoro. Come detto in precedenza, in forza del contratto di lavoro, il dipendente non deve all’impresa solo la propria prestazione lavorativa, ma è tenuto anche ad altre obbligazioni di comportamento. Più recisamente, l’art. 2104 c.c. impone al dipendente di essere fedele all’impresa e l’art. 2105 c.c. lo obbliga a non arrecare danni al datore di lavoro con il suo comportamento. Se un datore di lavoro fosse condannato al risarcimento dei danni per il mobbing subito da un suo dipendente per opera di colleghi di lavoro, questi sarebbero pertanto soggetti – a loro volta – ad una azione legale del proprio del proprio datore di lavoro. Le conseguenze potrebbero essere disciplinari, ma anche risarcitorie. Il principio è stato affermato dalla giurisprudenza nell’ambito del pubblico impiego, ma riteniamo possa valere anche nell’ambito del rapporto di lavoro privato. Si tratta in particolare della sentenza della Sezione lavoro della Cassazione del 22.03.2018, n. 7097, secondo la quale: “nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo; ciò in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.“.
Cosa si intende per atti persecutori. In primo luogo deve assistersi ad una molteplicità di atti, non quindi un singolo episodio, ma più azioni o comportamenti che si susseguono con una apprezzabile continuità (singoli atti possono dar luogo allo straining che tratteremo in seguito). In secondo luogo, queste azioni non necessariamente devono essere illecite. Ai fini del risarcimento civile, gli atti, se singolarmente valutati, possono anche essere leciti. Per esempio, un procedimento disciplinare, in sé considerato, anche se poi si riveli infondato e non si concluda con una sanzione disciplinare, non è un atto illecito, così come non lo sono un richiamo verbale, una richiesta di lavoro straordinario, un cambio turno, la negazione di un permesso, un trasferimento o simili. Se invece il datore di lavoro adottasse più atti del genere, in tempi molto ravvicinati, e per un periodo apprezzabile che in genere viene determinato in almeno 6 mesi, questi potrebbero dar luogo a mobbing, se finalizzati soltanto a vessare il lavoratore e comunque in presenza delle circostanze che a breve esamineremo. Bisogna comunque precisare che, a maggior ragione, possono dar luogo a mobbing anche gli atti effettivamente illegittimi, come le minacce, le offese, gli atti discriminatori, i demansionamenti, dequalificazioni, lo svuotamento mansioni e simili.
La citata sentenza della Cassazione n. 33639 del 2022 richiama molte altre pronunce ad essa precedenti (Cass. n. 28858 del 2008; Cass. n. 3785 del 2009; Cass. n. 18927 del 2012; Cass. n. 17698 del 2014; Cass. n. 24029 del 2016; Cass. n. 12437 del 2018; Cass. n. 24883 del 2019; v. anche Corte Cost. n. 359 del 2003) per definire il c.d. elemento soggettivo del mobbing, per definire cioè qual’è il fine voluto da chi mette in pratica il mobbing. Le varie condotte devono essere tutte preordinate ad un unico fine, quello di perseguitare la vittima, per discriminarla od emarginarla, per stressarla psicologicamente o per porla in una posizione di debolezza (cfr. Cons. Stato n. 5905 del 2018).
Si vuole in sostanza censurare una serie di atti e comportamenti che non hanno nulla a che vedere con le finalità imprenditoriali e di produzione, ma che sono preordinate soltanto a mettere in condizioni di inferiorità un singolo dipendente.
Gli atti persecutori possono essere sia i provvedimenti formali, sia i comportamenti. Così possono dar luogo a mobbing il demansionamento, il trasferimento, il procedimento disciplinare, la dequalificazione con mansioni inferiori al proprio livello o la privazione di mansioni. Allo stesso modo possono essere lesivi i comportamenti, come il voluto isolamento, la denigrazione, la discriminazione, od anche la diffamazioneo la minaccia.
Sono risarcibili i danni alla salute, alla personalità od alla dignità del dipendente. In ambito civile, la più frequente tipologia di danno da mobbing è quello alla salute, inteso come danno psichico. La prova del danno è data da una certificazione medica che attesti l’esistenza della patologia contratta a seguito delle prevaricazioni subite. È quindi opportuna la dimostrazione che quella patologia è stata contratta successivamente al mobbing subito. Non è quindi sufficiente uno stato di sofferenza od uno stato di stress, è semmai necessario che sofferenza o stress abbiano causato una patologia accertabile e certificabile.
Anche l’alterazione delle abitudini di vita del lavoratore, che siano conseguenza delle prevaricazioni subite, può dar luogo ad un risarcimento del danno (Cass. civ., Sez. Unite, 24.03.2006, n. 6572). In questo caso il lavoratore sarà chiamato a dimostrare che gli atti persecutori lo hanno costretto a scelte di vita diverse (per esempi dimissioni), che non gli hanno consentito di realizzarsi come avrebbe voluto. In alcuni casi dal mobbing consegue anche un danno economico, come per esempio nel caso del demansionamento professionale che, se illegittimo, dà luogo al risarcimento del danno patrimoniale (Cass. civ., Sez. lavoro, 18.10.1999, n. 11727).
Il danno accertato deve essere stato causato dal mobbing. Non bisogna trascurare di dar prova del c.d. nesso causale. Il lavoratore deve essere in grado di dar prova, non solo di aver subito vessazioni e della esistenza della patologia, ma anche del fatto che la stessa patologia sia stata effettivamente causata dal mobbing. Un primo indice è senz’altro – come detto prima – l’epoca di insorgenza della patologia. Se questa è sorta dopo le condotte mobbizzanti e comunque in data prossima alle stesse, questo è già un indice dell’esistenza del nesso causale. È pur vero che, dal punto di vista medico, è spesso possibile accertare l’origine o causa scatenante di uno stato ansiogeno o depressivo, sicché anche da questo punto di vista l’accertamento sanitario può essere una fonte di prova.
Atti vessatori singoli o sporadici possono essere “straining”. Quando abbiamo trattato gli atti persecutori abbiamo visto che, per aversi mobbing, questi devono essere molteplici e attuati con frequenza e per un apprezzabile periodo di tempo. È tuttavia possibile che le vessazioni tipiche del mobbing vengano realizzate dal datore di lavoro o da un suo preposto, con un singolo atto o con atti sporadici. È evidente che, per causare uno stato di stress tale da compromettere la salute del lavoratore, sono di norma necessari più atti vessatori susseguenti, perché è più raro che un singolo episodio avverso possa sconvolgere l’equilibrio psicofisico di un individuo, tranne che questi non sia già un soggetto sensibile per ragioni diverse dal contesto lavorativo e quindi per motivi non addebitabili al datore di lavoro. Tuttavia, anche se più raro, ciò è possibile.
In alcuni casi anche un singolo atto del datore di lavoro può causare uno stress tale da sfociare in uno stato patologico. Ciò avviene qualora l’unico atto vessatorio produca conseguenze a lungo termine sulla vita del lavoratore (sentenza n. 156/2014 della sezione lavoro della Corte di Appello di Brescia, confermata dalla sentenza n. 3291/2016, della Corte di Cassazione). Si pensi alla revoca di un incarico che comportava l’erogazione di una indennità di funzioni od ad un trasferimento gravoso, oppure ad una singola minaccia capace però di condizionare la vittima della stessa per lungo tempo.
In questi casi, se l’atto è preordinato a vessare il lavoratore, è comunque configurabile “l’ipotesi qualificata anche in giurisprudenza – con definizione mutuata dalla psicologia – come straining: una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici“ (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 15.11.2022, n. 33639).
Per essere dichiarato vittima di straining, il lavoratore – come per il mobbing – è comunque tenuto a dimostrare l’esistenza dell’atto vessatorio, il danno alla propria salute, il nesso tra vessazione e danno, nonché lo scopo esclusivamente vessatorio del datore di lavoro.
Quando c’è un danno, nonostante non ci sia mobbing (lo stress da lavoro-correlato). Il lavoratore può senz’altro essere assoggettato ad uno stato di stress, dovuto a cicli produttivi o comunque a ritmi di lavoro particolarmente intensi, senza che questi siano stati imposti per vessarlo. In assenza di vessazione, come detto in precedenza, non può esserci il mobbing.
Tuttavia, il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche lo stato di stress.
Vediamo, brevemente, il senso di questa affermazione.
I sindacati europei l´8 ottobre 2004 hanno raggiunto un accordo in merito allo stress sul lavoro, con lo scopo “di offrire ai datori di lavoro e ai lavoratori un modello che consenta di individuare e di prevenire o gestire i problemi di stress da lavoro” (art. 2 Accordo). In questo documento, all’art. 3, viene anche definito cosa debba intendersi per stress, ovvero “uno stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali ed che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti.
(…) Lo stress non è una malattia ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute.
Lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro.
Tutte le manifestazioni di stress sul lavoro non vanno considerate causate dal lavoro stesso.
Lo stress da lavoro può essere causato da vari fattori quali il contenuto e l’organizzazione del lavoro, l’ambiente di lavoro, una comunicazione “povera”, ecc.”
In ambito nazionale, questo accordo è confluito nell’accordo interconfederale Stress Lavoro-Correlato del 9 giugno 2008, dove all’art. 5 si legge che “Secondo la direttiva-quadro 89/391, tutti i datori di lavoro hanno l’obbligo giuridico di tutelare la salute e sicurezza sul lavoro dei lavoratori. Questo dovere si applica anche in presenza di problemi di stress lavoro-correlato in quanto essi incidono su un fattore di rischio lavorativo rilevante ai fini della tutela della salute e della sicurezza. Tutti i lavoratori hanno un generale dovere di rispettare le misure di protezione determinate dal datore di lavoro.
2. La gestione dei problemi di stress lavoro-correlato può essere condotta sulla scorta del generale processo di valutazione dei rischi ovvero attraverso l’adozione di una separata politica sullo stress e/o con specifiche misure volte a identificare fattori di stress”.
Inoltre, l’accordo europeo ha dato luogo, anche sul piano normativo, al testo dell’art. 28 D.lvo n. 81/2008, che prevede il contenuto del D.V.R., documento obbligatorio per tutte le aziende, che, tra le altre disposizioni, prevede anche che devono essere preventivamente valutati i rischi in cui possono incorrere i lavoratori “tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”.
Le regole appena viste implicano uno specifico obbligo di protezione a carico del datore di lavoro e nell’interesse dei suoi dipendenti, che quindi non dovrebbero essere esposti a rischi da stress da lavoro-correlato. Se invece in un lavoratore – per lo stress che ha sopportato a causa del lavoro – dovesse essere riscontrato uno stato patologico, il datore di lavoro ne sarebbe responsabile, perché, dovendo in forza dell’art. 2087 c.c. prevenire nocumento all’integrità psicofisica del lavoratore, qualora il proprio dipendente abbia contratto una patologia a causa dello stress da lavoro, è presumibile che i sistemi di sicurezza e prevenzione impostigli dalla legge non siano stati adeguati o addirittura non siano stati adottati. Ciò, quindi, prescinde da intenti persecutori o vessatori.
Sulla base di queste regole, la Cassazione ha precisato che “in tema di obbligo di protezione ex art. 2087 c.c., la dimensione organizzativa assume rilevanza quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, atteso che l’art. 28 del T.U. n. 81 del 2008, ulteriore specificazione del più generale canone presidiato dall’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato; ne consegue che, ove il datore di lavoro indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, per configurare la responsabilità datoriale è sufficiente che l’inadempimento, imputabile anche solo per colpa, si ponga in nesso causale con un danno alla salute” (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 15.11.2022, n. 33639).
Se il lavoratore è chiamato, in questo caso, a dimostrare la compromissione della propria salute a causa dello stress ed il motivo per cui la prestazione lavorativa è divenuta stressante, il datore di lavoro deve invece dimostrare di aver adottato tutti gli accorgimenti necessari, e quindi ad aver redatto il D.V.R., ad avervi incluso un protocollo efficace a prevenire lo stress da lavoro-correlato, ed ad aver attuato le misure preventive descritte nel D.V.R. stesso.
Quando non c’è risarcimento, nonostante l’esistenza di un danno.
È possibile che il lavoratore accusi stress dovuto al lavoro, che a sua volta abbia dato luogo ad una patologia psichica, come uno stato depressivo od ansiogeno, senza che di ciò ne possa essere responsabile il datore di lavoro. Ciò avviene qualora lo stato di stress non sia dovuto a particolari disposizioni aziendali, bensì alla stessa mansione tipica abitualmente affidata ai dipendenti, che provoca stress soltanto ad uno di loro, e che venga normalmente sostenuta dagli altri.
La giurisprudenza ha chiarito anche tale aspetto, precisando che ”si resta al di fuori della responsabilità datoriale ove i pregiudizi lamentati dal lavoratore derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili. Ne consegue che non ricorrono le ipotesi di mobbing o di straining ove le condotte datoriali siano caratterizzate dall’essere munite di ragionevoli motivazioni e giustificazione dell’operato ed anche se il lavoratore ha sviluppato, in ragione dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva quale conseguenza di una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dal datore” (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 23.05.2022, n. 16580).
Nel particolare caso di modifica della precedente mansione, giustificata da un processo di riorganizzazione che ha interessato tutta l’azienda, non è stato ritenuto responsabile il datore di lavoro di episodi di stress riguardanti un singolo dipendente. Nell’occasione è stato precisato che “Il cd. “straining” è ravvisabile allorquando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”, e non quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda” (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 04.02.2021, n. 2676).
Nessuna responsabilità aziendale è stata individuata in caso di stress dovuto ad incomprensioni o litigi con colleghi o superiori, essendo queste normali situazioni che possono sempre avvenire sul luogo di lavoro, ed essendo cosa ben diversa dalle vessazioni preordinate. Il condivisibile principio è stato affermato dalla Cassazione, laddove ha precisato che “non si configura una ipotesi di mobbing né di straining ove sia acclarata una mera situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro che, come tali, non intercettano una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale – specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di difficoltà amministrativa – è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c.” (Cass. civ., Sez. Lavoro, Ordinanza, 06.10.2022, n. 29059).
Conclusioni
Dedicheremo altri approfondimenti alla materia, soprattutto per le particolarità che questa assume nel lavoro pubblico, in ambito militare, ed in ambito penale.
Questo spazio ha il solo lo scopo di chiarire al meglio cosa si intenda per mobbing. Un fenomeno molto serio e reale, ma che spesso, nella nostra esperienza, viene richiamato impropriamente, soprattutto dai lavoratori, per definire situazioni diverse, dove, pur potendo intervenire con azioni legali, non vi sono i presupposti del mobbing.
Chi invece è davvero soggetto al mobbing ha senz’altro nell’azione legale il valido rimedio per tornare a vivere il proprio lavoro come uno mezzi di realizzazione della propria persona, così come sempre dovrebbe essere e come d’altronde prevede la Costituzione.
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