Trattamento di lavoratori con diversi contratti collettivi.
I principi costituzionali di buon andamento della Pubblica Amministrazione e di uguaglianza impongono al datore di lavoro pubblico un trattamento uniforme dei propri dipendenti. Il principio è codificato dal D.lvo n. 165/2001, all’art. 45, ove è previsto che le Amministrazioni Pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale.
Secondo la Cassazione (Cass. n. 6553/2019) la disparità di trattamento vietata è quella dovuta a ”scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore”, mentre è legittima quando è dovuta a “pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e istituzionalizzato, di regola sufficiente a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete”. In questo caso “non ricorre più il conflitto del lavoratore con il datore di lavoro, trattandosi di valutazioni operate dalle parti sociali, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato”.
Il fondamento di questi principi è chiaramente ispirato alle regole di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., recentemente richiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177/2022, nella quale si è ricordato che “si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili”.
È quindi possibile che due lavoratori, pur con compiti e mansioni analoghe ed alle dipendenze dello stesso datore di lavoro pubblico, vengano trattati diversamente. Perché ciò sia legittimo è necessario che:
- il diverso trattamento sia stato oggetto di un accordo del datore di lavoro pubblico con i sindacati;
- il diverso trattamento riguardi due categorie di lavoratori e non singoli lavoratori;
- l’accordo sia stato raggiunto perché le due categorie di lavoratori hanno svolto diversi percorsi formativi o comunque hanno maturato differenti esperienze lavorative.
Il caso del Contratto Collettivo di natura privata applicato a lavoratori pubblici.
Sulla base dei principi appena indicati, è interessante esaminare una vicenda che ha interessato alcuni lavoratori di un ente comunale che sono stati assunti con un contratto collettivo del settore privato.
In alcuni Comuni, infatti, in aggiunta al personale reclutato con le tradizionali procedure concorsuali, vi sono anche categorie di lavoratori assunti mediante delle leggi speciali ed inquadrati in contratti collettivi del settore privato.
In questi casi la pianta organica dell’Ente Comunale è formata da una categoria di lavoratori normalmente trattati con Contratto Collettivo Enti locali, e da un’altra categoria di dipendenti che, seppur esercitanti analoghe mansioni, vedono il proprio rapporto regolato da un Contratto Collettivo del comparto privato.
Per alcuni dipendenti di uno di questi Comuni, la diversità dei due trattamenti è emersa quando questi hanno subito un procedimento penale, per fatti di servizio.
Un tale avvenimento, se riguardante un dipendente pubblico, qualunque sia l’Amministrazione di appartenenza, esige spesso l’attivazione di provvedimenti del datore di lavoro – quali la sospensione dal servizio – per ovvie ragioni di buon funzionamento della P.A., o comunque perché ciò è disposto da un provvedimento cautelare della Autorità penale che impedisce da sé al lavoratore di prestare il proprio servizio.
La sospensione dal servizio per la pendenza di procedimenti penali spesso non è invece prevista nella contrattazione privata, ove la sovrapposizione tra procedimento penale e disciplinare non riceve le attenzioni che il legislatore dedica invece, in analoghi casi, al rapporto pubblicistico ai sensi dell’art. 55ter del D. lvo n. 165/2001. D’altronde è ovvio che la pendenza di un procedimento penale non necessariamente incide nel rapporto di lavoro privato, mentre ha certamente una rilevanza ben diversa nel rapporto di lavoro pubblico, ove dal dipendente è pretesa una condotta irreprensibile anche al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni e dell’ambito lavorativo. Nel rapporto di lavoro pubblico, per esempio, anche se l’Amministrazione ha archiviato il procedimento disciplinare, deve comunque riaprirlo nel caso sopravvenga un sentenza definitiva di condanna (cfr. comma 3 art. 55ter D.lvo n. 165/2011, comma 1bis art. 653 c.p.p.).
Le norme che regolano la sospensione del rapporto, nel comparto pubblicistico, vengono spesso integrate dai contratti collettivi o dalla stessa legge con regole destinate a tutelare il dipendente, quantomeno prima che lo stesso venga giudicato. Questa è la finalità del c.d. assegno alimentare, prestazione economica ragguagliata spesso al 50% della retribuzione e che compensa il periodo di forzata inattività del lavoratore, in attesa della sentenza penale, che – se di assoluzione – dà diritto al versamento della parte della retribuzione non corrisposta nel periodo di sospensione.
Questo meccanismo di tutela è tuttavia previsto solo nei contratti del comparto pubblico, ed in particolare nell’art. 61 del contratto Enti locali del 21 maggio 2018, che disciplina il rapporto dei dipendenti comunali. Nessun contratto del comparto privato prevede invece l’assegno alimentare.
L’Ente comunale aveva però diramato un regolamento interno, per regolare i rapporti di lavoro di tutti i dipendenti, riproducendo in esso più norme del contratto collettivo degli Enti locali e, tra queste, anche quella che prevede il pagamento dell’assegno alimentare, nel corso della sospensione e della restante retribuzione in caso di assoluzione.
Nel concreto, i lavoratori assunti con contratto del comparto privato hanno subito il procedimento penale, sono stati sospesi dal servizio con le regole dettate dalla legge ex D.lvo n. 165/2001, e non hanno ricevuto nè l’assegno alimentare, nè alcuna retribuzione per tutto il corso della sospensione del loro rapporto. Il procedimento penale si è concluso con la loro assoluzione, e, quindi, con la loro reintegrazione in servizio, ma – nonostante ciò – il Comune ha ritenuto di non poter corrispondere le retribuzioni a suo tempo non versate non essendovi una norma che lo prevedesse.
I motivi del diniego manifestato dal Comune.
Prima obiezione. Il regolamento non può attribuire voci retributive ai dipendenti: Secondo l’Ente pubblico, non potrebbe essere versato un assegno alimentare in forza di un regolamento, perchè l’art. 89 D.lvo n. 267/2000 elenca quali sono le sole materie che questo può disciplinare e fra queste non sono previsti i trattamenti retributivi dei dipendenti.
Seconda obiezione. Il regolamento non può derogare il contratto collettivo privato: Inoltre il Comune aveva ritenuto non applicabile la norma sull’assegno alimentare alla categoria dei dipendenti con contratto del comparto privato, perché prevista da un regolamento e non da una norma di legge. Più precisamente, la legge prevale sul contratto collettivo e questo su un regolamento comunale. Quindi, se legge e contratto collettivo non prevedono l’assegno alimentare, attribuire quest’ultimo ad un dipendente significherebbe permettere al regolamento di derogare le fonti superiori e quindi violare la loro gerarchia.
Le difese del lavoratore.
Il regolamento non attribuisce nuove voci retributive ai dipendenti: Le difese dell’Ente partono da una osservazione corretta; è vero cioè che il regolamento non può derogare un contratto di lavoro, individuale o collettivo, nè tantomeno la legge. A ben vedere – però – il lavoratore non ha chiesto che gli venisse erogata una voce retributiva prevista dal regolamento, ma che gli venisse erogata la retribuzione prevista nel suo contratto collettivo. Il regolamento in questione prevede soltanto che durante la sospensione dal servizio il Comune avrebbe dovuto erogare il 50% dello stipendio (quello previsto nel contratto) e, dopo l’assoluzione del suo dipendente, il restante 50%. Quindi il regolamento non prevede una voce retributiva diversa da quella prevista nel contratto collettivo, ma soltanto una diversa modalità di erogazione.
In merito alla seconda obiezione. Differenza tra deroga ed integrazione di norma: Derogare una norma significa applicare una regola che sia ad essa contraria. Nel caso concreto, invece, il regolamento comunale non è posto in contrasto con il contratto collettivo privato; piuttosto il regolamento prevede un caso, quello della pendenza di un procedimento penale, che il contratto non prevede. Applicare la norma regolamentare in questione, quindi, non comporta la deroga del contratto collettivo, comporta piuttosto l’integrazione del suo contenuto.
Ed infatti le norme del CCNL del settore privato si limitano a prevedere le sanzioni disciplinari applicabili in caso di infrazioni del lavoratore, ma senza nulla dire in merito al rapporto tra procedimento penale e disciplinare e non contengono alcun riferimento al trattamento retributivo dovuto in corso di sospensione cautelare e quello conseguente ad una eventuale sentenza di assoluzione.
In sintesi, la norma del regolamento comunale disciplina un caso che il Contratto collettivo non contempla e quindi non è derogatoria, ma integrativa.
Questa tesi, sostenuta nel contenzioso di un nostro assistito, è stata condivisa dal Tribunale di Palermo, nella sentenza della sezione lavoro n. 1716/2023, secondo la quale la norma del regolamento “rappresenta una norma integrativa tesa a regolare un fenomeno giuridico non contemplato dal contratto collettivo di categoria”.
E’ quindi risultata applicabile la norma del regolamento secondo la quale il lavoratore ha diritto al percepimento dell’assegno alimentare e, dal momento della sua assoluzione, al pagamento dell’intera retribuzione.
Rilevanza dell’obbligo di parità di trattamento nel rapporto di lavoro pubblico.
Su un caso identico di altro lavoratore da noi assistito, è intervenuta la sentenza n. 220/2022 della sezione lavoro del Tribunale di Palermo, ove si osserva che: “a prescindere da specificità di statuti professionali dovute a modalità atipiche di assunzione e/o inquadramento nei ranghi della P.A., ciò che rileva è la natura di ente pubblico del datore di lavoro, natura che costituisce dunque il solo elemento idoneo ad assicurare omogeneità di trattamento a tutti i lavoratori che ne fanno parte”. Sulla base di tali premesse, il Tribunale ha rilevato che “anche al ricorrente deve ritenersi applicabile il regolamento in oggetto”.
La conclusione cui si perviene in questa seconda sentenza è la stessa della prima, ma attraverso una motivazione diversa. In questo caso il Giudice ha considerato che, nel rapporto di lavoro pubblico, vige il principio di parità di trattamento del personale (art. 45 D.lvo n. 165/2001), principio che, in assenza di accordi o disposizioni normative contrarie deve essere garantito, soprattutto dove esiste una norma regolamentare che sia a ciò finalizzata.
Conclusioni
Può quindi tracciarsi una linea guida per definire l’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento nel rapporto di lavoro pubblico.
È sempre possibile che due lavoratori, pur con compiti e mansioni analoghe ed alle dipendenze dello stesso datore di lavoro pubblico, vengano trattati diversamente. Perché ciò sia legittimo è necessario che:
- il diverso trattamento sia stato oggetto di un accordo del datore di lavoro pubblico con i sindacati;
- il diverso trattamento riguardi categorie di lavoratori e non singoli lavoratori;
- l’accordo sia stato raggiunto perché le due categorie di lavoratori hanno svolto diversi percorsi formativi o comunque hanno maturato differenti esperienze lavorative.
Come abbiamo visto in precedenza, in assenza anche di uno soltanto di questi elementi, due lavoratori non possono essere trattati diversamente e ciò neanche se il loro rapporto venga regolato con due diversi contratti collettivi.