Come si manifesta il Mobbing nelle forze dell’ordine.

Domande frequenti (F.A.Q.)

Un dipendente subisce mobbing quando è soggetto a persecuzioni o vessazioni in mabito lavorativo, sino a subire un danno alla propria salute
Il mobbing può essere realizzato sia dai superiori che da altri colleghi
No. Il presupposto è che gli atti che il dipendente assume essere vessatori provengano da un soggetto che ha agito nell’esercizio delle proprie funzioni.
Dipende. Si, se lo scopo trasferimento è quello di vessare il dipendente, non in altri casi. In ogni caso il trasferimento deve essere stato impugnato.
In caso di danno da stress, la prova è data da una certificazione medica che attesti l’esistenza della patologia contratta a seguito delle prevaricazioni subite. È quindi opportuna la dimostrazione che quella patologia è stata contratta successivamente al mobbing subito. Non è quindi sufficiente uno stato di sofferenza od uno stato di stress, è semmai necessario che sofferenza o stress abbiano causato una patologia accertabile e certificabile. Anche l’alterazione delle abitudini di vita del lavoratore, che siano conseguenza delle prevaricazioni subite, può dar luogo ad un risarcimento del danno (Cass. civ., Sez. Unite, 24.03.2006, n. 6572). In questo caso il lavoratore sarà chiamato a dimostrare che gli atti persecutori lo hanno costretto a scelte di vita diverse (per esempi dimissioni), che non gli hanno consentito di realizzarsi come avrebbe voluto. Eventuali danni alla carriera possono poi comportare il risarcimento del danno patrimoniale subito. Il danno accertato deve essere stato causato dal mobbing. Non bisogna trascurare di dar prova del c.d. nesso causale. Il lavoratore deve essere in grado di dar prova, non solo di aver subito vessazioni e della esistenza della patologia, ma anche del fatto che la stessa patologia sia stata effettivamente causata dal mobbing.

Abbiamo già trattato gli aspetti del mobbing (vai qui per vedere l’articolo).

In questo spazio abbiamo modo di vedere come questo fenomeno può presentarsi nel pubblico impiego e, nello specifico, nelle forze dell’ordine.

Definizione di mobbing e di datore di lavoro

Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro, o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica

Al fine di ritenere integrata la condotta mobbizzante, secondo la giurisprudenza amministrativa (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 21.09.2015, n. 4394 e Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 284), deve essere, dunque, accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi:

a) la molteplicità e globalità di atti e comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo consistente nell’intento persecutorio

Per i militari e per la Polizia di Stato la giurisprudenza è solita richiamare i principi dell’art. 2087 c.c., secondo il quale il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Nell’ordinamento militare, il soggetto che assume le vesti del datore di lavoro è individuato dall’art. 246 del D.P.R. 90/2010 (in genere chi è preposto ad un comando o ufficio avente autonomia gestionale), mentre nell’ordinamento della Polizia di Stato dall’art. 3 del decreto del Ministero dell’Interno del 02.02.2022 emanato in attuazione dell’art. 2 comma 1 del decreto del Ministero dell’interno n. 127/2019 (in genere i Direttori delle Direzioni Centrali e degli Uffici di pari livello).

Queste norme prevedono peraltro chi, oltre ad i soggetti individuati come datore di lavoro, siano responsabili della salute e sicurezza del personale, dovendo l’Amministrazione adoperarsi per tutelare la salute, la psiche e la dignità dei propri dipendenti. E’, quindi, è certamente illegittima tanto la condotta del datore di lavoro che agisca lui stesso con vessazioni contro un lavoratore, quanto l’inerzia dell’Amministrazione dinanzi al comportamento vessatorio di un pari grado.

Quali atti formali possono comportare la responsabilità della Pubblica Amministrazione.

Per definire meglio le regole che riguardano il mobbing nell’ambito delle forze dell’ordine e per segnare i confini tra mobbing ed eventuali illeciti addebitabili esclusivamente al collega od anche al superiore, può prendersi spunto dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, del 09.10.2018, n. 5789, le considerazioni della quale segnano un confine per comprendere come e quando intraprendere iniziative in casi analoghi.  

La sentenza prende in esame una vicenda nella quale un dipendente delle forze dell’ordine aveva subito procedimenti penali e disciplinari, instaurati sulla base di informazioni rese dal proprio dirigente all’Autorità Giudiziaria ed all’organo disciplinare, dirigente che poi aveva anche richiesto il trasferimento d’ufficio dello stesso dipendente per la pendenza di questi procedimenti.

Una volta archiviati i procedimenti penali e disciplinari, nonché revocato il trasferimento, il dipendente pubblico ha agito nei confronti dell’Amministrazione e del dirigente stesso, proponendo ricorso al TAR per ottenere da loro il risarcimento del danno da mobbing.

Nel corso del primo grado è sorto un primo problema, ovvero quello di chiarire che tipo di atti del dirigente – o comunque di un superiore – possano dar luogo al mobbing e quali siano invece fonte di responsabilità individuale della persona che ha posto in essere condotte vessatorie. La questione è stata risolta in secondo grado, presso il Consiglio di Stato, che ha così chiarito alcuni principi.

In particolare bisogna distinguere gli atti vessatori formali da quelli materiali.

Le richieste di trasferimento e di procedimenti disciplinari sono state qualificate come atti della “amministrazione-apparato” perché compiute nell’esercizio delle funzioni gerarchiche che l’Amministrazione ha conferito al dirigente. Anche le denunce – laddove il superiore constati un illecito – sono atti dovuti ed obbligatori, anch’essi posti in essere nell’esercizio delle prerogative proprie del potere organizzativo e disciplinare e, dunque, per finalità istituzionali.

È stato ritenuto che questi atti sono compiuti per conto dell’Amministrazione, e quindi il dirigente ha agito come fosse lui stesso l’Amministrazione (c.d. rapporto di immedesimazione organica).

In buona sostanza, il presupposto è che gli atti che il dipendente assume essere vessatori provengano da un soggetto che ha agito nell’esercizio delle proprie funzioni, mentre se si tratta di atti che non hanno nulla a che vedere con i compiti propri della funzione esercitata, non può esservi una responsabilità della P.A.

Quali atti materiali possono comportare la responsabilità della Pubblica Amministrazione.

Nel concreto, come visto, gli atti formali di un superiore sono di norma eseguiti nell’esercizio delle funzioni e quindi sono riconducibili alla P.A.

È meno agevole fare una distinzione dei comportamenti, ovvero degli atti materiali.

Un atteggiamento vessatorio, finalizzato a stressare o provocare l’isolamento di un collega di grado inferiore od analogo, non necessariamente si traduce in un atto giuridico, ma può essere attuato con semplici azioni. L’intento persecutorio può essere portato avanti dal superiore gerarchico o da colleghi di lavoro, con denigrazioni, offese, o con meri atteggiamenti collettivi. In questi casi, la responsabilità della Pubblica Amministrazione può anche essere di tipo omissivo, poiché il rapporto contrattuale che lega il dipendente pubblico all’Amministrazione, impone a questa, ed in particolare ai soggetti che assumono le vesti di datore di lavoro, anche di prevenire il mobbing o comunque di evitare che il lavoro arrechi pregiudizi alla salute del dipendente.

D’altronde, nell’ordinamento militare e nella Polizia di Stato, il datore di lavoro, come in genere il superiore di grado, ha il potere di impartire direttive obbligatorie e, pertanto, ha la possibilità – e quindi il dovere – di far cessare una condotta pregiudizievole dei subordinati nei confronti di un altro. Nell’Ordinamento militare, questi principi trovano fondamento nell’art. 725 D.P.R. n. 90/2010, secondo il quale il superiore di grado deve esercitare i propri poteri al servizio delle Forze armate e per far osservare dai dipendenti le leggi, i regolamenti, gli ordini militari e le disposizioni di servizio, (…) deve mantenere salda la disciplina dei militari dipendenti, (…) curare le condizioni di vita e di benessere del personale, (…) salvaguardare l’integrità fisica dei dipendenti. Di contro, gli inferiori di grado, ai sensi dell’art. 732 D.P.R. n. 90/2010, devono eseguire gli ordini ricevuti con prontezza e senso di responsabilità.Nella Polizia di Stato analogamente l’art. 8 D.P.R. 782/1985 prevede che “l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza è tenuto ad eseguire gli ordini impartiti dal superiore e ad uniformarsi nell’espletamento dei compiti assegnati alle direttive dallo stesso ricevute”.

È quindi evidente come i rispettivi ordinamenti rendano obbligatorio l’intervento del datore di lavoro in caso di vessazioni, utilizzando la loro posizione di supremazia per far cessare le condotte lesive. In mancanza di un intervento risolutivo, l’Amministrazione sarebbe responsabile direttamente dei danni subiti dal lavoratore vessato, proprio perché, i soggetti individuati quali datore di lavoro, pur avendo il potere di far cessare la condotta illecita, non lo avrebbero fatto, omettendo quindi di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro e violando quindi l’art. 2087 c.c.  

È comunque da precisare che il datore di lavoro deve essere a conoscenza della situazione, perché se ne fosse del tutto ignaro, non potrebbe essere ritenuto colpevole per non aver impedito vessazioni delle quali non era a conoscenza.

Se invece vi fosse un comportamento vessatorio di un collega che nulla ha a che vedere con i compiti e mansioni a questi affidate, vi sarebbe una responsabilità individuale.

Laddove si volesse far valere una responsabilità individuale dei funzionari pubblici, bisognerebbe introdurre un contenzioso separato dinanzi al Giudice Ordinario (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, Ordinanza, 03/10/2016, n. 19677).

L’importanza di impugnare gli atti giuridici che regolano il rapporto di lavoro.

Secondo un principio piuttosto diffuso, in materia di mobbing, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (Cons. Stato, Sez. II, 09.12.2022, n. 10795; Cons. Stato, Sez. V, 04.07.2022, n. 5554). Se la domanda di risarcimento venisse proposta ugualmente, la mancata impugnazione dell’atto comporterebbe l’esclusione o la diminuzione del risarcimento (cfr. T.A.R. Sicilia Catania, Sez. III, Sent., 02.05.2023, n. 1429).

In buona sostanza, se gli atti vessatori si sostanziano in provvedimenti formali, come trasferimenti, procedimenti e sanzioni disciplinari, demansionamenti e quant’altro, il dipendente – per pretendere il risarcimento per mobbing – deve prima impugnare i provvedimenti vessatori, ovviamente entro i termini previsti dalla legge.

Il principio deriva dal terzo comma dell’art. 30 del codice del processo amministrativo, secondo il quale il Giudice riduce od esclude il risarcimento nei confronti della Pubblica Amministrazione, quando chi chiede i danni avrebbe potuto lui stesso evitarli. Questa regola, applicata al mobbing, può essere letta nel senso che se un lavoratore ha la possibilità di far cessare gli effetti lesivi di un trasferimento o di una sanzione disciplinare e non lo ha fatto, non può poi chiedere di essere risarcito (Cons. Stato, V, 5554/2022).

Ovviamente è possibile impugnare gli atti che riguardano la gestione del rapporto di lavoro, come demansionamenti, trasferimenti, sanzioni disciplinari. L’esempio è dato dalla vicenda esaminata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 5789/2018 per la quale un dipendente delle forze dell’ordine aveva subito procedimenti penali e disciplinari, instaurati sulla base di informazioni rese dal proprio dirigente all’Autorità Giudiziaria ed all’organo disciplinare; aveva poi subito anche il proprio trasferimento d’ufficio. In questo caso, il dipendente ha l’onere di impugnare il trasferimento, l’eventuale sanzione disciplinare, ma nessuna impugnazione può svolgere nei confronti della denuncia all’Autorità Giudiziaria o dell’informativa all’organo disciplinare.

Allo stesso modo, gli atti vessatori frutto di comportamenti materiali non sono ovviamente impugnabili.

La responsabilità del “mobber”.

Il lavoratore che “mobbizza” un collega non è esente da responsabilità. Pur non essendovi un contratto tra i colleghi di lavoro, questi sono comunque responsabili per i fatti illeciti da loro perpetrati. L’art. 14 D.P.R. n. 782/1985 prescrive precisi doveri di comportamento per il personale di Polizia verso i superiori, i colleghi e i dipendenti, onde evitare di diminuirne o menomarne, in qualunque modo, l’autorità ed il prestigio. Anche nell’Ordinamento militare è previsto un dovere di solidarietà codificato nell’art. 719 Com che disciplina lo spirito di corpo.

Quando l’Amministrazione viene condannata al risarcimento dei danni per il mobbing subito da un suo dipendente per opera di colleghi di lavoro, questi sono pertanto soggetti – a loro volta – ad una azione per responsabilità erariale. La questione è efficacemente trattata dalla sentenza della Sezione lavoro della Cassazione del 22.03.2018, n. 7097, secondo la quale: “nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo; ciò in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro“.

I danni risarcibili.

Sono risarcibili i danni alla salute, alla personalità od alla dignità del dipendente. In ambito civile, la più frequente tipologia di danno da mobbing è quello alla salute, inteso come danno psichico. La prova del danno è data da una certificazione medica che attesti l’esistenza della patologia contratta a seguito delle prevaricazioni subite. È quindi opportuna la dimostrazione che quella patologia è stata contratta successivamente al mobbing subito. Non è quindi sufficiente uno stato di sofferenza od uno stato di stress, è semmai necessario che sofferenza o stress abbiano causato una patologia accertabile e certificabile.

Anche l’alterazione delle abitudini di vita del lavoratore, che siano conseguenza delle prevaricazioni subite, può dar luogo ad un risarcimento del danno (Cass. civ., Sez. Unite, 24.03.2006, n. 6572). In questo caso il lavoratore sarà chiamato a dimostrare che gli atti persecutori lo hanno costretto a scelte di vita diverse (per esempi dimissioni), che non gli hanno consentito di realizzarsi come avrebbe voluto.

Eventuali danni alla carriera possono poi comportare il risarcimento del danno patrimoniale subito.

Il danno accertato deve essere stato causato dal mobbing. Non bisogna trascurare di dar prova del c.d. nesso causale. Il lavoratore deve essere in grado di dar prova, non solo di aver subito vessazioni e della esistenza della patologia, ma anche del fatto che la stessa patologia sia stata effettivamente causata dal mobbing. Un primo indice è senz’altro – come detto prima – l’epoca di insorgenza della patologia. Se questa è sorta dopo le condotte mobbizzanti e comunque in data prossima alle stesse, questo è già un indice dell’esistenza del nesso causale. È pur vero che, dal punto di vista medico, è spesso possibile accertare l’origine o causa scatenante di uno stato ansiogeno o depressivo, sicché anche da questo punto di vista l’accertamento sanitario può essere una delle fonti di prova.   

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